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Novembre 21, 2003

La politica del denaro e il sistema economico orientato alla guerra

 

 

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La politica del denaro e il sistema economico orientato alla guerra
Ecco cosa fanno i nostri governi. Ecco la loro cultura della guerra, la cultura che stanno cercando di instillare tramite i loro dettati mediatici. Veramente credete ancora ai "cattivoni" da combattere o vogliamo credere ai "denari suonanti" che parlano?

L'apparato militare industriale mondiale viene nutrito da una spesa pubblica molto consistente che, per i 15 paesi con il bilancio della Difesa più alto, nel 2002, era pari a 638,7 miliardi di dollari, pari all'82% del totale mondiale (che era di 784 mld US$). In questa classifica stanno nettamente al primo posto gli Stati Uniti, che staccano tutti con il 43% del totale mondiale, seguono Giappone, Regno Unito, Francia e Cina. L'Italia si colloca fieramente all'ottavo posto con il 3% della spesa mondiale.


Fonte: http://www.open-economy.org

di Martino Mazzonis

Quello che lega la spesa pubblica e l'industria di produzione di armi è davvero un filo robusto. Non è solo la spesa pubblica, ma anche le politiche a determinare la capacità di crescita delle imprese che producono aerei, navi, cannoni, pistole e tutti gli altri sofisticatissimi marchingegni che si usano in ogni angolo del mondo per occupare, mantenere il potere, mantenere l'ordine, uccidersi a vicenda e uccidere civili inermi.

da Sbilanciamoci!
grazie a Informationguerrilla

Quello che lega la spesa pubblica e l'industria di produzione di armi è davvero un filo robusto. Non solo, come ci hanno dimostrato recenti avvenimenti nel Parlamento italiano, non è solo la spesa pubblica, ma anche le politiche a determinare la capacità di crescita delle imprese che producono aerei, navi, cannoni, pistole e tutti gli altri sofisticatissimi marchingegni che si usano in ogni angolo del mondo per occupare, mantenere il potere, mantenere l'ordine, uccidersi a vicenda e uccidere civili inermi.

L'esempio sempre buono su come si mantengono in vita e fanno crescere importanti fabbriche di armi leggere è quello relativo alla facilità con cui queste si comprano negli Stati Uniti, dove queste, essendo un bene di consumo di massa vengono prodotte in quantità gigantesche. Questo, tra l'altro rende quell'industria competitiva dandole la capacità di sviluppare nuovi prodotti, conquistare mercati e così via.

Ma l'esempio delle armi leggere Usa è, per così dire, di quelli minori. Al primo posto, nella classifica delle politiche capaci di rendere vitale il comparto industriale militare è la spesa pubblica per la Difesa del paese nel quale il produttore di armi ha la propria sede e quella dei paesi dove esporta i propri prodotti.

Più avanti ci si occuperà anche del tema centrale su cui questo dossier è centrato (l'Italia), ma per rendere bene l'idea occorre necessariamente parlare degli Stati Uniti e delle dinamiche planetarie di questo settore. Tanto più che sono proprio queste ultime a essere determinate (molti dicono a contribuire a determinare) dalla moltiplicazione dei conflitti, le stragi di civili, la distruzione di massa.

Chi spende di più

L'apparato militare industriale mondiale viene nutrito da una spesa pubblica molto consistente che, per i 15 paesi con il bilancio della Difesa più alto, nel 2002, era pari a 638,7 miliardi di dollari, pari all'82% del totale mondiale (che era di 784 mld US$). In questa classifica stanno nettamente al primo posto gli Stati Uniti, che staccano tutti con il 43% del totale mondiale, seguono Giappone, Regno Unito, Francia e Cina. L'Italia si colloca fieramente all'ottavo posto con il 3% della spesa mondiale.

Tabella 1 Spese militari, i primi 15 paesi (2002)

Paese
Spesa

(in mld. US$)
% su spesa mondiale*

Usa
335,7
43

Giappone
46,7
6

Regno Unito
36
5

Francia
33,6
4

Cina
31,1
4

Germania
27,7
4

Arabia Saudita
21,6
3

Italia
21,1
3

Iran
17,5
2

Corea del Sud
13,5
2

India
12,9
2

Russia
11,4
2

Turchia
10,1
1

Brasile
10
1

Israele
9,8
1

Fonte: Sipri
* Le % sono arrotondate verso l'alto dal Sipri

Se rivalutiamo i dati della tabella 1 utilizzando il PPP (purchasing power parity), l'indicatore della World Bank che tiene conto del potere d'acquisto delle varie monete, la classifica cambia. Al primo posto restano gli Stati Uniti, seguiti dalla Cina e dalla nuova entrata India. A parte gli Usa, tutti gli altri cambiamo posizione: Giappone, Italia, Gran Bretagna, Francia, Iran, Arabia Saudita scendono, mentre Cina, Russia, India, Turchia, Pakistan, Brasile salgono.

Naturalmente non tutte le spese militari significano acquisto di armi: molto se ne va nelle infrastrutture, negli stipendi dei militari, manutenzione, pasti, alloggi. Guardiamo allora alla composizione della spesa di alcuni paesi dell'Alleanza Atlantica per capire in che percentuale queste risorse pubbliche vengono impiegate in acquisto di armi, ricordandoci che le altre spese pesano comunque sul bilancio dello Stato e impediscono altre politiche di spesa.

Se prendiamo il dato complessivo NATO per il 2002 vediamo che le spese per il personale siano pari al 64% del totale, mentre quelle per l'equipaggiamento siano pari al 36%. Nel caso dei paesi NATO europei le proporzioni cambiano di molto: essendo le spese per il personale intorno al 75%. Ci sono quindi alcuni paesi NATO che modificano considerevolmente il dato complessivo, spendendo più in armi che in soldati. Questi paesi sono la Turchia (3326 milioni di dollari per le armi e 4394 per il personale) e gli Stati Uniti (83593 milioni di dollari in armi, pari al 41% del totale, e 116447 per il personale).

Per capire quanto siano importanti le scelte politiche nel far crescere il comparto possiamo guardare alle recenti vicende americane. La quota di bilancio che gli Stati Uniti dedicavano all'acquisto di equipaggiamento è scesa costantemente dal 1993 fino al 2000 compreso. Dal 2001 ha ricominciato a salire (del 18% in quell'anno, del 7,1% nel 2002) riportandosi ai livelli del 1995. L'amministrazione Bush, insomma, come tutti sappiamo, ha usato l'attentato alle torri gemelle per pompare soldi nelle casse dei giganti della produzione di armamenti. Oltre a questo aumento, e alle conseguenze che sta avendo (o che contribuisce a determinare) va tenuto in conto che nell'ottobre 2001 è nato l'Office of Homeland Security, che oltre a restringere i diritti dei cittadini americani, ha anche comportato un esborso di 37,7 miliardi di dollari dalle loro tasche. L'11 settembre è addirittura riuscito nel miracolo di far approvare alcuni progetti di sviluppo di armi che sembravano destinati alla bocciatura da parte del Congresso americano, come ad esempio lo stealth supersonico da combattimento F-22 o il Joint Strike Fighter (JSF).

Per finire sulla spesa Usa va ricordato che negli anni novanta, finite le spese folli per la guerra fredda, l'esigenza di ridimensionare i bilanci dello Stato dettata da ideologie liberiste e competizione internazionale, aveva contribuito al taglio di cui si è detto. La destra americana, che pure minaccia di tagliare i boschi perché spegnere gli incendi costa di più, dall'orecchio delle spese militari non sente le sirene del bilancio da tagliare. Alla faccia del ridimensionamento dell'intervento pubblico in economia.

Questo aumento di bilancio determina necessariamente il rafforzamento dell'apparato industriale militare americano, aumentando la distanza tra quello e l'europeo, migliorando la qualità dei prodotti (se di qualità possiamo parlare) e consentendo alle grandi imprese investimenti in Ricerca e Sviluppo capaci di sviluppare applicazioni tecnologiche che, in parte, consentono agli Stati Uniti di mantenere la propria competitività sul terreno delle tecnologie. Gli Stati Uniti (le loro imprese) investono in R&S 8 volte quello che investono le imprese europee e questo è massimamente dovuto alle economie di scala di quei giganti della produzione di armi, ma anche dalle garanzie che il bilancio Usa ha saputo dare. Soldi pubblici, insomma, che passano per le industrie militari e attraverso queste producono un salto di qualità nello sviluppo tecnologico del Paese.

La spesa pubblica americana è anche drogata dal fatto che deputati e senatori, al momento dell'approvazione del bilancio della Difesa, tendono a farlo crescere approvando emendamenti per una fornitura di fucili mitragliatori allo stabilimento della loro contea o per l'ammodernamento della caserma nello Stato nel quale vengono eletti. La Difesa, insomma, spesso si trova con più soldi di quanti non abbia chiesto. Per ottenere questi risultati, le imprese finanziano le campagne elettorali quasi in egual misura: durante l'ultima hanno pagato la campagna dei democratici per un terzo in meno rispetto a quella dei repubblicani. Naturalmente i finanziamenti arrivano dalle stesse imprese a entrambi gli schieramenti. A ben vedere, i presidenti americani (anche l'ultimo durante il conflitto con l'Iraq) si fanno spesso filmare a fare comizi agli operai delle multinazionali di armi spiegando loro come essi siano eroi che contribuiscono alla salvezza del Paese e andando su tutte le televisioni con il marchio dello sponsor dipinto sul cacciabombardiere alle loro spalle.

Finendo davvero con la spesa americana, va ricordato che il governo degli Stati Uniti finanzia anche l'export di armi, assicurando contratti, promuovendo fiere e quant'altro, aiutando il marchio a farsi conoscere all'estero, come se si trattasse del vino del Piemonte o della nuova generazione di designer di moda.

Le dimensioni del comparto industriale
Ma chi sono i grandi produttori di armi? I dati del SIPRI (dati del 2000) indicano che sulle prime 100 imprese costruttrici di armi 43 sono statunitensi, e poi molte francesi, britanniche, giapponesi e italiane (8). Il primo produttore di armi al mondo è la Lockheed Martin il cui fatturato dipende al 73% dalla vendita di armi ed era - quel 73%, non il totale - nel 2000 (prima cioè dell'iniezione di Bush) pari a 18610 milioni di dollari. Segue la Boeing con 16900 milioni (ma solo il 33% del totale del volume di affari), poi la britannica BAE Systems, le statunitensi Raytheon e Northrop Grumman. I grandi gruppi italiani erano nel 2000 sostanzialmente quelli legati a Fiat e Finmeccanica. Ma bisogna ricordare l'importanza del comparto italiano delle armi leggere che non fa crescere le dimensioni delle imprese ai livelli di chi produce navi e cacciabombardieri ma che produce armi che, specie nei paesi del Sud del Mondo, diventano armi da guerra.

Sempre secondo l'istituto di Stoccolma[1], Negli anni novanta, con la fine della guerra fredda e la trasformazione degli equilibri geopolitici, l'industria di produzione delle armi ha conosciuto un importante processo di ristrutturazione. I principali elementi che il Sipri sottolinea come componenti questo processo sono:

Un aumento dell'internazionalizzazione e concentrazione della produzione;Un forte processo di razionalizzazione determinato da fusioni e acquisizioni di imprese; Un maggior grado di privatizzazione e commercializzazione del settore;Una maggiore capacità delle grandi imprese produttrici di armi di dipendere meno dal prodotto armi;

Questo percorso ha determinato importanti acquisizioni da parte di imprese americane di altre imprese americane. Mentre in Europa le acquisizioni e fusioni sono piuttosto tra imprese di paesi diversi (pensiamo ad esempio alla Alenia Marconi Systems di proprietà di Finmeccanica e la britannica BAE). L'aumento di privatizzazione significa che, specie in Europa, molte armi le producevano le industrie di proprietà pubblica (vedi ancora Finmeccanica), mentre oggi quelle imprese sono state in tutto o in parte privatizzate.

Questi processi non si differenziano molto da altri che hanno toccato altri comparti produttivi, con la differenza che il prodotto è in po' speciale e con l'aggiunta che, mentre i panettoni pubblici poi si vendono sul mercato, le armi le compra principalmente il pubblico (quello del tuo paese o magari quello di un tuo futuro nemico).

Venendo all'export di armi, osserviamo una tabella del 2001 (SIPRI) per poi dare uno sguardo all'Italia.

La Tabella 2 riporta le quantità di armi vendute (a livello nazionale e export) per alcuni paesi o gruppi di paesi. L'Italia è, insieme alla Germania, il 6° venditore mondiale di armi, con il 2,2% del totale mondiale. Al primo posto, con il 60% del mercato mondiale vi sono gli Stati Uniti, seguiti da Gran Bretagna, Francia e Giappone.

Tabella 2 Il mercato delle armi per Paese

Paese
Vendita di armi

in mld Us$
% sul totale

Usa
94,6
60

UK
22,4
14,2

Francia
11
7

Italia
3,4
2,2

Giappone
7,4
4,7

PVS
6,54,1

Israele
3,5
2,2

India
1,9
1,2

Quando guardiamo all'export gli Usa stanno al 47% del totale, segue la Russia con il 15% e poi Francia, Germania e Italia[2]. E' interessante notare come l'export sia forte laddove le spese militari non mancano e anche come ci sono paesi dove la spesa militare alta contribuisce a fare grande un comparto che esporta meno di quello di altri paesi (vedi la Gran Bretagna, ad esempio, che spende molto, vende molto, ma esporta relativamente poco).

Esercito e spesa pubblica, politica ed export di armi in Italia
Anche in Italia la spesa pubblica contribuisce non poco al rafforzamento del comparto e all'utilizzo per case, pensioni, stipendi di militari anziché per far crescere e migliorare l'efficienza di altri pezzi della macchina pubblica.

La spesa militare italiana ha ripreso a crescere a partire dal 1998 (altro governo, altra maggioranza): guardando ai dati SIPRI questa è cresciuta ogni anno (salvo nel 2001 per ragioni di emergenza nel bilancio). Nel 2003 lo stanziamento complessivo del bilancio della Difesa ammonta a 19.614 milioni di Euro, un aumento in termini reali di 585 milioni. A questi stanziamenti occorre aggiungere altre spese militari quali sono quelle per le missioni all'estero o alcune commesse e programmi di sviluppo di armi multilaterali che non vengono inseriti nelle tabelle e nel Bilancio della Difesa. Nel complesso sono molti, moltissimi soldi. Tra 2002 e 2003 lo Stato ha speso in investimenti (esclusi quindi personale ed esercizio, le altre voci di Bilancio) 6856 milioni di Euro[3].

Tra le cose che lo Stato compra c'è una portaerei che nel 2000 (l'anno in cui si è deciso di costruirla) costava 2500 miliardi di lire (e i cui costi, come sempre avviene, cresceranno sensibilmente). Una bella manna per chi produce navi da guerra. Tra le altre cose comprate o in produzione abbiamo: i famosi Eurofighter, nuovi sistemi missilistici antiaerei, nuove fregate, elicotteri, mezzi blindati e corazzati e un investimento nel JSF di cui si è parlato facendo riferimento agli Stati Uniti.

Questo è un elemento che fino ad ora non abbiamo sottolineato: lo stare dentro alle alleanze e il parallelo fondersi di imprese hanno determinato lo sviluppo di numerosi programmi internazionali di sviluppo e produzione di sistemi d'arma. Perciò ci si allea, si fanno le guerre e si decide assieme di costruire armi. Non è un caso se i nuovi membri della Nato (tutti paesi dell'Est europeo) abbiano visto aumentare la loro spesa pubblica per la Difesa a partire dall'ingresso nell'Alleanza (comprando armi dove?).

Quanto all'industria militare, oltre alla spesa diretta, lo Stato italiano ha fatto, nel 2001 e definitivamente nel 2003, un vero capolavoro, firmando il trattato di Farborough prima e ratificandolo/peggiorandolo con una legge, poi. A questo capolavoro hanno concorso prima la maggioranza di centrosinistra e poi quella di centrodestra.

Quel trattato e quella legge rendono non operativo il dettato della legge 185/1990 sul controllo del commercio di armi[4]. Grazie alla nuova legge saranno più difficili i controlli (già in larga parte disattesi in precedenza) e più facili le triangolazioni (cioè produzioni congiunte con paesi che non hanno limiti all'export, e poi export verso paesi nei quali l'Italia non potrebbe esportare).

Questa legge e quel trattato hanno a che fare con il processo di fusioni tra imprese e all'aumento di collaborazione. Si dice: "Se l'Europa vuole essere competitiva sul mercato delle armi deve smetterla di porre limiti al commercio e far aumentare i programmi comuni". Ecco allora che alcuni paesi decidono di firmare un trattato che contribuisca allo sviluppo di questo settore. Il trattato si firma, guarda caso, a Farborough, ridente cittadina inglese dove ogni anno si tiene un importante fiera delle armi. Evidentemente le lobby cominciano a funzionare anche da noi.

Una cosa molto importante da sottolineare è che il trattato di Farborough non è un trattato europeo e non è all'Europa che bisogna ricorrere per giustificare il fatto di averlo firmato. Si tratta di un accordo tra stati membri dell'Unione ma non in seno all'Unione. Altra cosa importante da sottolineare per mettere in evidenza il nesso tra politiche pubbliche e industria militare è che in questo campo la collaborazione a livello europeo tra imprese e tra paesi è molto più facile che non in altri: in questo caso il committente (Nato, esercito europeo o nazionali che siano) sono qualcosa che si assomiglia molto, le industrie non competono se collaborano e attraverso programmi comuni vendono ai governi dei prodotti nei quali tutti i paesi guadagnano.

La sostanziale cancellazione della legge 185/90, sui cui effetti si potrà dire qualcosa tra uno o due anni, non ci impedisce di guardare a cosa è successo nell'ultimo anno in cui la legge era ancora in vigore.

Nel 2002 sono state concesse 626 autorizzazioni all'esportazione per un totale di 920,155 milioni di Euro. Tra i paesi verso cui esportiamo armi ci sono (oltre ad altri paesi europei) il Kuwait, Singapore, Arabia Saudita, Malaysia, Venezuela, Turchia, Algeria, Siria, Pakistan, Giordania, quasi tutti gli staterelli petroliferi del Golfo, Filippine[5]. Come si può vedere, prima della trasformazione della 185, lo spirito della legge era abbondantemente tradito.

Il lungo elenco di cifre contenute in quest'articolo mostra, se dopo il 2003 ce ne fosse ancora bisogno, come l'economia di guerra, la spesa pubblica e l'enorme comparto industriale siano legati a doppio filo. La produzione legislativa, l'aumento delle spese militari, mostrano anche la forza del comparto e l'apparente ineluttabilità di queste politiche di spesa. In questo l'Europa è straordinariamente compatta. Tanto da arrivare a ipotizzare (è ancora una possibilità) di eliminare le spese militare dalla contabilità di Maastricht e del Patto di stabilità. Mentre, insomma si raccomandano tagli alla spesa in tutti i comparti sociali e si fa poco o nulla per politiche ambientali comuni e di grande respiro e impatto, molto si fa e si è disposti a fare per armarsi, produrre e vendere armi. Sarebbe bello vedere un simile impegno nascere su temi come quello dell'ambiente (che ricordiamo ogni estate, morendo di caldo o rischiando di annegare in un fiume in piena) o dei diritti sociali.

[1] Sipri, Trend in arms production, 2003.

[2] Chiara Bonaiuti, Ancora armi italiane a paesi poveri, in conflitto e che violano diritti, Os.c.ar/Ires - Toscana, 2001.

[3] Ministero della Difesa, Nota aggiuntiva alo stato di previsione per la Difesa 2002, ottobre 2002.

[4] Per una disamina della nuova legge si veda, Chiara Bonaiuti, Trasparenza e controllo nel commercio di armi: le conseguenze delle modifiche alla legge 185/90, Os.c.ar. - Ires Toscana.

[5] Presidenza del Consiglio, Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, nonché dell'esportazione e del transito dei prodotti di alta tecnologia (anno 2002), 2003.

 


mandato da Ivan Ingrilli il Venerdì Novembre 21 2003
aggiornato il Sabato Settembre 24 2005

URL of this article:
http://www.newmediaexplorer.org/ivaningrilli/2003/11/21/la_politica_del_denaro_e_il_sistema_economico_orientato_alla_guerra.htm

 


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vorrei avere per cortesia qualche suggerimento riguardo all'importanza, e all'influenza del denaro sulla società di oggi, per la mia tesina dell'esame di stato.se possibile inviatemi un'e-mail. grazie!

Mandato da: vanessa il Aprile 14, 2004

 


vorrei avere per cortesia qualche suggerimento riguardo all'importanza, e all'influenza del denaro sulla società di oggi, per la mia tesina dell'esame di stato.se possibile inviatemi un'e-mail. grazie!

Mandato da: il Aprile 14, 2004

 

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